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Riflessioni sulle scienze

Riflessioni sulle Scienze

di Alberto Viotto    indice articoli

 

La stanza cinese

Luglio 2008

  • La macchina che pensa

  • Gli scacchi ed il gioco del “go”

  • Il linguaggio naturale

  • La stanza cinese

  • Qualche obiezione

  • La questione della velocità

  • Il test di Turing

  • Discriminare le macchine?


intelligenzaLa macchina che pensa

Produrre una macchina che sia in grado di pensare è l’obbiettivo finale della cosiddetta “Intelligenza Artificiale”, una disciplina delle scienze cognitive. Pur avendo ottenuto indiscutibili successi, però, l’intelligenza artificiale è ancora molto lontana da questo sogno.

Secondo alcuni ricercatori, per raggiungere un livello paragonabile a quello dell’intelligenza umana sarà sufficiente continuare sulla strada attuale, costruendo grandi basi di dati e confidando nell’aumento della capacità di elaborazione dei calcolatori. A parere di altri ricercatori, invece, è necessario un ripensamento degli schemi finora utilizzati e l’intelligenza artificiale non potrà fare progressi decisivi fino a quando non nasceranno nuove idee fondamentali.

Secondo John McCarty, uno dei padri di questa disciplina, la potenza di calcolo dei computer di 30 anni fa, migliaia di volte più lenti di quelli attuali, sarebbe già stata sufficiente per emulare l’intelligenza umana, se solo si fosse saputo come programmarli.

 

Gli scacchi ed il gioco del “go”

La programmazione di macchine in grado di giocare a scacchi è stata il campo in cui l’intelligenza artificiale ha raggiunti più rapidamente buoni risultati. Per qualche tempo si è pensato, per usare le parole del ricercatore russo Alexander Kronrod, che gli scacchi potessero essere la Drosophila della intelligenza artificiale. Le ricerche sulla riproduzione di questo insetto, infatti, hanno dato un impulso decisivo alle ricerche di genetica all’inizio del XX secolo. I rapidi risultati raggiunti nel gioco degli scacchi avevano fatto nascere la speranza che li si potessero estendere ad altri settori di ricerca.

Al giorno d’oggi le macchine dell’intelligenza artificiale riescono a giocare a scacchi meglio di qualsiasi giocatore umano, ma queste ricerche sono rimaste fine a sé stesse. Gli aspetti competitivi e commerciali hanno preso il sopravvento, e si sono organizzate con clamore sfide pubbliche tra computer e campioni del mondo. Secondo le parole di John McCarty:

 

“Sarebbe come se gli studiosi di genetica del 1910 avessero organizzato gare tra gli insetti prodotti dalle loro ricerche e si fossero concentrati su questi aspetti per ottenere finanziamenti”

 

D’altra parte, gli scacchi potrebbero essere una delle poche attività in cui i meccanismi di cui ci è chiaro il funzionamento permettono di raggiungere buoni risultati. In altri giochi le macchine dell’intelligenza artificiali sono molto lontane dai livelli di un giocatore umano.

Nel gioco cinese del “Go”, un gioco di strategia basato sull’esame di posizioni e subposizioni di pedine sul campo, nonostante molti sforzi i programmi dell’intelligenza artificiale non hanno ottenuto risultati apprezzabili. Il gioco del “Go” evidenzia quanto siamo ancora lontani dal comprendere i meccanismi intellettuali utilizzati dagli esseri umani per giocare.

 

Il linguaggio naturale

Parlare il normale linguaggio umano per una macchina è molto più difficile che giocare a scacchi. Una delle prime difficoltà è proprio la comprensione del linguaggio. Il primo studioso ad affrontare il problema del significato e della struttura del linguaggio umano è stato il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, che nel Tractatus Logico-Philosophicus del 1918 scriveva:

 

“Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo... Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate”

 

In molti casi i programmi di intelligenza artificiale riescono effettivamente a rispondere a domande in modo coerente. Il loro approccio, però, è simile a quello adottato per il gioco degli scacchi; si utilizza la “forza bruta”, eseguendo un enorme numero di operazioni. Se un essere umano utilizzasse la stessa tecnica, impiegherebbe un tempo molto alto per rispondere a delle domande.

 

La stanza cinese

Un approccio ancora più radicale al problema è quello del filosofo statunitense John Searle, secondo il quale è comunque impossibile che una macchina pensi. A questo scopo ha proposto nel 1980 il “Paradosso della stanza cinese”.

Immaginiamo che una persona che non conosce il cinese sia chiusa in una stanza con una serie di regole, scritte nella sua lingua madre, per ordinare in una certa maniera i caratteri della lingua cinese. Queste regole, se eseguite scrupolosamente, permettono di rispondere in modo soddisfacente ad ogni possibile domanda. Nella stanza vengono introdotti dei fogli con domande scritte in cinese. Utilizzando le istruzioni scritte nella sua lingua, la persona che si trova nella stanza è in grado di compilare in cinese dei fogli con le risposte.

Chi si trova al di fuori della stanza e vede le risposte correttamente formulate in cinese, immaginerà che all’interno della stanza si trovi una persona che conosce il cinese. Chi è dentro la stanza, però, sa benissimo di non conoscere il cinese. Secondo Searle, quindi, se anche un giorno esisterà una macchina che ci dia l’impressione di essere in grado di pensare, intrattenendo con noi una discussione, non si potrà concludere che essa stia effettivamente pensando, perché non farà altro che eseguire una serie di operazioni guidate, esattamente come il finto cinese. A questa macchina mancherà comunque ciò che Searle chiama il “contenuto mentale”, un concetto simile a quello di “coscienza”.

 

Qualche obiezione

La “Stanza cinese” ha scatenato una quantità incredibile di commenti e di articoli, e ancora adesso è un argomento molto dibattuto nei newsgroups di Internet. Una delle principali osservazioni prende in esame il “sistema” composto dalla persona nella stanza e dalle istruzioni. A conoscere il cinese non è la persona da sola, ma il sistema composto dalla persona e dalle istruzioni. A questa obiezione Searle ha ribattuto che, se ciò che è dentro la stanza non ha “contenuto mentale”, questo non può esserci nemmeno nell’elenco delle istruzioni.

Un’altra obiezione riguarda la velocità con cui la persona all’interno della stanza deve eseguire le istruzioni. Per rispondere correttamente alle domande, la quantità di regole da eseguire deve essere enorme. Esistono programmi di Intelligenza Artificiale che sono in grado di dialogare con una persona, sia pure in maniera molto limitata; per farlo, però, devono eseguire milioni di istruzioni elementari al secondo. Come ha scritto Steven Pinker, direttore del centro di scienze cognitive del MIT, “se incontrassimo una persona che sembrasse conversare intelligentemente in cinese, ma in realtà eseguisse in frazioni di secondo milioni di regole memorizzate, negheremmo che capisca il cinese? Non è tanto sicuro.”

 

La questione della velocità

La differenza tra la velocità con cui un uomo può eseguire delle operazioni e la velocità richiesta dall’esempio di Searle può cambiare i termini del problema. Secondo Patricia e Paul Churchland, l’argomento di Searle potrebbe essere usato contro la fondamentale teoria di Maxwell delle onde elettromagnetiche, secondo cui la luce consiste di onde elettromagnetiche. Un uomo che tiene in mano una calamita facendola oscillare crea radiazione elettromagnetica, ma non esce luce. Seguendo Searle si concluderebbe che la luce non è radiazione elettromagnetica, ma ciò che fa fallire l’esperimento è l’insufficiente velocità del movimento.

 

Il test di Turing

La risposta alla domanda “un calcolatore può pensare?” dipende da ciò che definiamo come “pensiero”. Nel 1950 il matematico Alan Turing, uno dei padri della Intelligenza Artificiale, ha proposto un criterio per rispondere a questa domanda. Secondo Turing, per essere chiamata intelligente una macchina deve essere in grado di far credere ad un osservatore esterno di essere una persona. L’interazione tra la macchina e l’osservatore può avvenire tramite una telescrivente o un dispositivo simile, per evitare la necessità di emulare la voce o l’aspetto umano.

Il criterio di Turing deriva da una affermazione di Cartesio, che nel ‘600 scrisse nel suo “Discorso sul metodo”: “Si può ben concepire che una macchina sia fatta in modo tale da proferire parole... ma non si può immaginare che possa combinarle in modi diversi per rispondere al senso di tutto quel che si dice in sua presenza, come possono fare gli uomini, anche i più ottusi.”

Per superare il test di Turing, nell’interazione tra la macchina e l’osservatore non vi possono essere indizi di un comportamento diverso da quello che potrebbe avere una persona; anche investigando sulle emozioni o sui sentimenti di ciò che si ha di fronte non si deve capire che non è un essere umano. La macchina deve emulare completamente il comportamento umano, includendo le emozioni, i sentimenti, la coscienza e tutto ciò che può caratterizzare una persona.

 

Discriminare le macchine?

Questo obbiettivo è ancora molto lontano, ma se fosse raggiunto potremmo negare che una macchina sia in grado di pensare? Searle pone l’accento sul modo in cui si ottiene un comportamento che si possa ritenere umano, ma non coglie un punto fondamentale: noi non sappiamo che cosa succede nella mente delle altre persone, come non sappiamo che cosa succede all’interno della stanza cinese. Per assurdo, non potremmo escludere che tutte le altre persone del mondo siano state sostituite da automi dall’aspetto umano in grado di superare il test di Turing, come in alcuni film di fantascienza. Se una macchina riesce a comportarsi esattamente come un altro uomo, non possiamo fare a meno di affermare che pensi, né più né meno di come affermiamo che gli altri uomini pensano.

 

    Alberto Viotto

 

Se qualche lettore trovasse questo articolo interessante o ne volesse discutere, all'autore farebbe piacere ricevere delle e-mail all'indirizzo: alberto_viotto@hotmail.com

 

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